domenica 30 settembre 2007

Real Life vs. Internet 0-1

tutto il tempo che internet ci fa risparmiare nella ricerca di informazioni lo disperdiamo naufragando nella ricerca annoiata informazioni triviali e inutili. se facessimo un conto del tempo guadagnato e di quello perso credo fermamente che quest'ultimo avrebbe la meglio, condannando il nostro culo accidioso alle pene eterne dell'inferno infuocato e popolato da preti pedofili, obesi e simoniaci e gigi d'alessio.
Uno dei miei tentativi piú frequenti per imboccare la via degli inferi é the Internet Movie Database (IMDb). qui si trova tutte le informazioni possibili riguardo ai film, cosa che a me interessa poco. quello che mi sgrulla é un linkello che sta in alto a sinistra che si chiama trivia in cui si possono trovare le curiositá di tutti i film, che é una maniera molto lollipop per indicare le peggio stronzate e fare la figura del positivamente curioso.
cosí ho scopeto che il futuro presidente degli Stati Uniti Arnold Schwarzenegger s'é portato a casa per Terminator 2 un gruzzoletto di 15 milioni di dolleri. questo per 700 parole di dialoghi. ció vuol dire che solo "Hasta la vista, baby" gli ha fruttato $85,716, il vil danaro giusto giusto per un paio di suv coi controwafer, un paio di lederhosen di dolce e gabanna, una sachertorte e un corso di dizione.
che non ha frequentato, evidentemente.

sabato 29 settembre 2007

Il nome della Mosa


Mosa: in dialetto trentino, piatto tipico a base di acqua, latte, farina gialla, farina bianca e semolino.

Mosa
: fiume che nasce in Francia e sfocia nel Mare del Nord passando per il Belgio e i Paesi Bassi. In olandese Maas, da cui Maastricht, ponte sulla Mosa.

venerdì 28 settembre 2007

La dignità del macchinone

Ricordo che all’Università la professoressa di psicologia ambientale era olandese (si chiamava pure Maas, casualmente) e un giorno ci racconta che, mentre in Italia tutti i docenti universitari raggiungono l’ateneo in macchina anche se vivono poco lontano, in Olanda chi arriva in macchina è solo un trombone inquinante antisociale e pigro ed è perciò maledetto (nel senso che se ne parla male). E non scherzava. Ho visto in TV qualche ministro arrivare in parlamento pedalando allegramente e preservare il mezzo con un lucchetto. L'ho visti addirittura togliersi un'antiestetica protezione per il pantalòn, come tutti i comuni mortali. Per quanto ne so io potrebbero essere dei magnati del petrolio che vogliono fare la bella figura ecologica, o usare le bici del fratello biciclettaio. Poi però mi rendo conto che questo è quello che un italiano pensa di chi fa le cose con coscienza: penso che ha (non "abbia", ha) la coscienza sporca. Se un potente si mostra così umano ("com'è umano lei!") deve senz'altro avere secondi fini, tramare infingardo nell'oscurità e poi ridere grassamente (come Malefix dei vecchi Acchiappafantasmi, non quelli con Slimer, quelli col gorilla). Probabilmente invece lui è uno convinto. magari non solo non usa le auto blu, ma magari il mezzo non ce l'ha neanche e lo fa per dimostrare agli altri che si può, che una nuova via senza l'oppreessione densa dell'oro nero é percorribile, affidandoci alle possenti leve madre natura ci ha dato, piú due ruote, una catena e una sella antiemorroidale. Fatto sta che a un ministro italiano non passerebbe neanche nell’anticamera. E nemmeno a un sottosottosegretario. Sembrerebbero dei pezzenti, e la dignità è una qualità che va ostentata.

giovedì 27 settembre 2007

Diabolo d'un pedone

C’è una cosa che noti prima delle altre quando metti piede in Olanda. Prima dei canali e delle bici, prima dei mulini e degli zoccoli e di tutte le altre cose viziose che si narrano. La prima esperienza quotidiana fuori dal normale ti capita appena esci dalla stazione. Non è tanto l’esperienza quanto la sensazione che si prova a straniarti: quando sei in attesa di imboccare le strisce pedonali, le macchine si fermano e ti lasciano passare. Se poi tu, abituato a lasciarle andare (invero più per paura che per reverenza) fai segno che proseguano, loro rilanciano la cortesia come se fosse la cosa più ovvia del mondo e allora devi passare. Ecco, passare sulle strisce sapendo che l’automobilista non ti sta maledicendo (perché stai frenando la sua corsa contro i semafori, diavolo d’un pedone!) è una sensazione sconosciuta per noi italici. Calpestare le strisce in serenità è piacevole, sappiatelo. Che ti lascino passare succede anche in Italia, per carità, talvolta. Anzi diciamoci la verità, succede molto raramente. Da noi si presuppone che il passante possa aspettare finché la macchina sia passata. Invece qui hai la veramente precedenza, come, se ricordo bene, riportava ambiziosamente il Libro della Patente (che è la versione nostrana del Codice della Strada).

mercoledì 26 settembre 2007

Il nostro scriba

Internet è ormai il distributore di buona parte dell’informazione. Molte pillole di sapienza su supporto cartaceo hanno anche un (quasi) fedele corrispettivo nella rete. Molte ma non tutte, purtroppo. Tre cose mi mancano più di tutte dell’informazione italiana, tre cose che non si trovano in internet. Si può vivere anche senza, per carità, ma sicuramente godrei del poterle raggiungere. Sono L’Amaca di Michele Serra, le telecronache del MotoGp di Guido Meda e gli articoli sul tennis di Gianni Clerici.
Michele Serra tiene questo quadricino, verso pagina 19 di Repubblica, che è un distillato quotidiano di acume e dissacrazione sulle questioni attuali, spesso calci nei denti vibrati con una finezza irreprensibile e una lucidità invidiabile.
Il Motogp si vede anche da qui, ovviamente, ma guardarlo senza i sussulti appassionati e i calzanti neologismi dello stempiato più storico della TV italiana non è la stessa cosa. Termini come francobollato all’avversario o interiezioni come vietato fumare in pista! quando i pneumatici sublimano derapando fanno dell’esperto ma deragliante Meda un menestrello metropolitano (come direbbe Findut Poteidone), un poeta della sgommata, un cantore della sgasata.
Gli articoli di Gianni Clerici non escono regolarmente, purtroppo. Sono quotidiani in tempi di Grande Slam ma intermittenti nei periodi vacanti. Il vostro scriba, si definisce abitualmente nelle sue colonne. Uno che si presenta così o è così onestamente modesto da mettersi al fedele servizio del lettore o lo fa più prosaicamente per prendere per il culo. O entrambi. Non so quale sia il caso di Gianni Clerici ma questo vostro scriba mi ha sempre affascinato. A prescindere da queste questioni, diciamo, di facciata, i suoi articoli sono scritti da uno che si diverte a dondolare il capo al ritmo di una pallina guardando a destra e poi a sinistra, a destra poi a sinistra, che gode del mestiere che fa,. Non in maniera sguaiata come Meda, ma riportando i particolari più ficcanti, le quisquilie di un osservatore unite all’analisi di uno che ne sa a pacchi, perché ne ha visti, di incontri, seguendo tutta l’evoluzione del tennis, da sport di elite a fenomeno mediatico. Un grande vecchio dello sport, ma soprattutto un amante del gioco.

martedì 25 settembre 2007

Fashion victim

Maastricht, mi spiega Cristiana, che lavora qui da qualche anno, è la città dello shopping. È giovedì pomeriggio e il centro sembra un formicaio di bipedi che trasportano borse di tutte le fogge e di tutte le firme. Ci sono soprattutto olandesi, belgi, tedeschi, ma anche qualche spagnolo e francese. Questi camminatori indefessi si possono suddividere, a prima vista, in due categorie ben distinte: quelli con le borse e quelli col portafogli ancora pieno. Percorrono in ogni direzione questo centro medievale, con le stradine strette e pedonali e le case di mattoni rossi tutte sviluppate in altezza, che ospita fini pasticcerie e gioiellerie gioiosamente protese verso l’attenzione dei passanti. Sopra le vetrine opulente sfilano immobili tutte le firme della moda conosciute e sconosciute. Il gusto della moda olandese, a vederlo da qua, è simile a quello di altri posti, forse meno kitch di quello tedesco, meno elegante (ma anche meno truzzo) di quello italiano e meno stravagante di quello francese. La gente è molto ben vestita, paiono tutti in uscita ufficiale.
Cristiana dice che hanno cavalcato bene l’onda del trattato del 1992, quello dell’Euro, quello che ha decretato il passaggio dall’opportunista Comunità Economica Europea alla più ambiziosa Unione Europea. L’hanno cavalcata dicevo così bene, l’onda, che questo piacevole centro caratteristico e travestito da girone dantesco potrebbe mettersi in lizza per il salotto buono della Mitteleuropea 2007. Certamente il trattato non è stato firmato qui per caso. Siamo nel centro ideale dell’Europa, in fondo all’Olanda e a uno sputo dalla Germania, dal Belgio e dalla Francia. Ma nel centro ideale dell’Europa è la perfetta rappresentazione di quello che l’Europa vorrebbe essere: ordinata, pulita, multiculturale, con retrogusto di tradizione ma ambizioni metropolitane e un’economia che viaggia a vele spiegate. Forse per questo il centro del centro ideale dell’Europa è un crogiuolo pulsante di multinazionali al dettaglio. Gli astanti specchiano nei manichini e si riconoscono un po’.
Il tutto mi pare un po’ stonato, o forse sono io ad esserlo. Mentre fuggo impaurito dalla ressa elegantemente abbigliata, una versione di Rosamunda esce olandese da un pub che sparge sulla via il Raul Casadei nostrano, con tanto coro di ubriachi che arrancano dietro le parole come gregari in fuga all’ultimo allungo.
Rosamunda sarà l’originale o solo una versione di Rosamunde? E se entrambe fossero solo copie di un’altra canzone ancora, una versione primigenia, una UrRosamunda? In fondo i popoli si scambiano le canzoni da sempre. Pensa alla versione da messa di Blowing in the wind di Bob Dylan (dove la risposta, amico mio, sta sospesa nel vento diventa risposta non c’è, o forse chi lo sa, caduta nel vesto sarà: la levità della soluzione del folletto folk, e pure il suo messaggio positivo vengono ridotti a una perentoria e italica assenza di risposte, chè manca solo un ch’aggi’a fa, cumpà?).
Mentre cogito oziosamente sui diritti d’autore delle canzoni popolari vengo risucchiato all’interno di uno di questi negozi di vestiti. Gli uomini accompagnano le loro compagne e amiche in questi proteiformi templi dell’abbigliamento hanno la stessa aria smarrita degli accompagnatori italiani, l’espressione di quelli che stanno guardando un film che non capiscono, che si guardano attorno cercando uno schermo che dia una partita, o perlomeno delle foto di fresche pupattole in lingerie. Lì scopro finalmente che tutto il mondo è paese, che in fondo le esperienze si assomigliano in tutti i luoghi, e questo mi conforta

lunedì 24 settembre 2007

..and Zarathustra said: "In-Your-Face!"

Il basket è quel gioco con la palla a forma di arancia sbucciata. È punto quando la pallarancia entra nel cesto retato. Questa è la regola. Quindi tira la palla nel cesto. Così è stato per quasi un secolo, dacché è stato inventato da un professore del Canadà, nella palestra piccolina. Le uniche varianti praticate erano tirala da vicino, tirala da lontano, accompagnala. Finchè arriva il centenario della concezione e della pubblicazione di “Così parlo Zarathustra”, best seller di fine secolo, e i negroni della metropoli americana sono colpiti dalla coincidenza dell’anniversario e leggono cose come "Io vi insegnerò cos’è il Superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato. Che cosa avete fatto per superarlo?" Ed ecco che questi giovani scapestrati con nomi assurdi e braga larga si riuniscono nelle strade e nei playground delle metropoli dure e si ingegnano per trovare il modo di superare l'uomo. più o meno così nascono il rap e la schiacciata: baldi e truzzi più che mai decidono che la parola non va accompagnata per mano dentro alla canzone così come la pallarancia non va accompagnata fin sulla soglia della rete come ad un ballo di gala: esse vanno spinte dentro con la forza brutta, perché non c'è costrizione che quella che ci creiamo noi. che l'aria, quella fisica e quella melodica, sono solo concetti. Per la pallarancia basta un balzo abbastanza alto da arrivare il tuo pube all’altezza dell’occhio dell’altro. Il che vuol dire mol-to al-to. Per la canzone basta mettere tutte le parole che si vuole, sfondando la metrica. Colui che raggiunge tali altezze di braccia come colui che conquista le vette della scioltezza linguistica (in entrambi i sensi) si elevano sopra la scimmia di Nice e si esibiscono in un atto oltraggioso, schiacciando in faccia a tusaichì con di-sprezzo (=sprezzo moltiplicato per due), il debito di-sprezzo. Il rap e la schiacciata sono la scintilla che fa traboccare il vaso, il funambolo che cammina sul nulla.

venerdì 21 settembre 2007

Low Emission Pope

immagina di essere un capo spirituale, un saggio, un uomo etico, uno che dá l'esempio ai suoi discepoli. un gesú, un mohamed, un zarathustra per capirci. anzi, andiamo subito al sodo: immagina di essere la cittá del vaticano. nella cittá del vaticano ci sono le macchine, e pure i riscaldamenti. e ci mancherebbe altro, nel 2006. queste macchine e riscaldamenti peró emettono il gasse che tanto ci fa tossire e che tanto sembra nuvola ogni tanto, ma gasse é. il gasse é diavolo, la natura é dio. allora una ditta ungherese sai che fa? regala alla cittá del vaticano il rimboscamento di una foresta della città del vaticano. in ungheria. questo permette alla cittá stato di essere il primo stato al mondo con emissione neutrale di carbonio. il papa si dichiara soddisfatto per la pubblicitá garantita dall'operazione, o forse era la ditta, anzi sí, era la ditta.
come barare a solitario e poi bullarsi per avere vinto.
o avere la cravatta pulita e le mutande sporche.

giovedì 20 settembre 2007

Cane Morto!

dire di uno che qualcuno è un coglione ci sta, dire che è uno stronzo è già più pesante, toccare l'argomento mamma è rischiare, rimanendo nelle possibilità della parola cioè del non agito, e per agito intendo la violenza. dire che qualcuno è morto però fa veramente brutto.
george però c'ha la nonchalanza giusta.
guarda george

mercoledì 19 settembre 2007

Marie Antoinette

Che succede: la storia si dipana da quando Antoinette figlia d’Austria (una Kirsten Dunst bella come sempre) viene maritata a Luigi Augusto di Francia (XVI vi ricorda qualcosa?), fino alla disperata fuga da Versailles. La missione che le è stata affidata è di figliare un nuovo Luigi. Mentre a corte tutti trombano a destra e a manca (compreso il vecchio re con una procace e disponibile Asia Argento), il delfino di Francia è un appassionato di chiavistelli ma ha seri problemi con l’atto. Per metà del film non si capisce se sia gay o solo timido. Allora a MA non resta altro che godersi i suoi privilegi, strafogandosi di dolci e champagne, di scarpe, vestiti e parrucche, con questa spada di Damocle che le pende sempre sul capo (un presentimento? eheh): deve figliare assolutamente, sennò tutti a casa. Poi il re muore e lei diventa regina. Poi un giorno finalmente arriva il fratello di lei e spiega al re come funziona la cosa, qual è insomma il chiavistello giusto, lui finalmente riesce ad aprire la serratura e nasce una bambina. Compiuta una missione prioritaria (la seconda è fare anche un maculo) la regina può permettersi di ritirarsi nelle sue magioni, dividendosi equamente tra l’agricoltura e le feste pantagrueliche. Si fa anche un conte svedese, che non ha passioni per i chiavistelli e poi nasce un delfino biondo (ma tanto è bionda pure lei). Poi il re comincia a mandare gente in America e costa troppo e allora alza le tasse ma il popolo ha fame e sa che la regina si fa i festini con il ben di dio e il vino e le cosa da fumare e poi succede quel che succede.
Perché vederlo: perché la fotografia è bellissima, con colori e albe e balli e solitudini. Alcune scene sono bellissime e tutto è decadente (pure la musica, tutta più o meno new wave anni 80, a parte Strokes e una bossanova). Un film barocco e madornale, languido al punto giusto, dei silenzi tipo Last Days ma non così pesanti.
Perché non vederlo: perché è un po’ lento, in verità non succede poi molto e questa reginetta viziata fa un po’ incazzare. E manca il sangue alla fine: quello sì che avrebbe risollevato tutto, con Shwarzenegger-boia che dice Hasta la vista, baby.
Una battuta: niente battute fiche, a parte quando il principe d’Austria spiega al re di Francia come funzionano le cose lì sotto usando come metafora ai chiavistelli. Ah, un’altra cosa: in una scena in cui lei si prova montagne di scarpe appaiono delle All-Star. Un tocco situazionista., uno stiloso anacronismo.

martedì 18 settembre 2007

flu loves kazu


non ho mai nascosto la mia predilezzione per il kazù. come del resto per i cantanti che ne fanno fieramente uso. parlo in primis di paolo conte, che nobilmente si bulla (senza tutto il torto del mondo peraltro) di esserne il miglior interprete. poi edoardo bennato, marco calliari, un cantante canadese di origini nonese che canta in italiano con uno strano accento e un piglio più da canzone del sud che da coro della montagna (l'unica vera tradizione musicale alpina), e del migue, lo scomparso cantante de los delinquentes.
l'hanno usato anche beatles, pink floyd, red hot chili peppers, i cure e pure jimi, ma solo ocasionalmente, per fare i fichi.
per chi non lo sapesse il kazù, se è di metallo, sembra una pipa (piccolo spazio aneddotico: qualche anno fa sono stato fermato dai cani alla stazione di verona, e ovviamente l'ufficiale m'ha fatto togliere tutto dalla borsa, e quando ha visto quella cosa lí mi fa, con l'aria di quello che ha beccato le siringhe nelle tasche del tossico, "e questo a cosa serve?". lí ho taciuto, che l'esempio vale piú di mille parole, gli ho fatto un perepè canzonatorio e lui cè rimasto male, ma tanto: il sorriso di quello che ha capito tutto si è trasformato magicamente nella delusione pesa del bambino che alla comunione gli regalano un pacco che sembrano videogiochi e invece é la divina commedia; è stato pure divertente alla fine, ma vabbè, torniamo al kazù.). dicevo che ha la forma di una pipa e attraverso una membrana che sta nel fondo del braciere fa un rumore tipo trombetta. il bello è che non ci devi soffiare dentro, ma cantare. puoi dire perepè ma anche rattattarattarattà, o anche stammi bene compare.
per me é la forma più umile di suonare uno strumento che esiste, e pure la più semplice, quella più disponibile e sostenibile, una cosa un po' socialista se vogliamo, anche perché, contrariamente a tutti gli altri strumenti, vale solo qualche euro. sicuramente non serve spendere capitali, per la musica umile, né studiare anni di piano o di tromba.

domenica 16 settembre 2007

5'NIZZA

questo duo m'ha rubbato il cuor!! ciò che cantava james bond in una vasca da bagno guardando bud spencer e terence hill vale anco per me poichè questo duo russo è il mejo che abb(a)iano sentito le mie vecchie orecchie spugnose nel'ultimo agno di vita. sarà che chitarra e voce fa sempre chitarra voce intorno al fuoco, saranno le schitarrinate ratafarianne o i cantati hiphoppeggianti o le furbate da sergente jones (il nero che faceva i rumori in suola di polizia), e le citazioni situazioniste dall'occidente o i coretti furbissimi, o i lallallà e gli uauauà.
sarà pure lingua russa dai freddi, ma suona veramente abbuono.

eppoi c'è questo nuovo video che ce li mostra nella loro veste più dissacrante e divertita

eppoi pure questo di quando erano più giovini

sabato 15 settembre 2007

Cose da Hundertwasser

Brevemente, secondo il multiforme e visionario artista e architetto Friedrichsreich Hundertwasser (di cui consiglio la gustosissima teoria dei cinque strati di pelle e l'apartheid delle finestre), ogni spazio rubato alla natura, civilizzato ma non utilizzato, deve esserle restituito. Nelle case di Hundertwasser non esistono linee rette, le piante escono dalle finestre, sui tetti ci sono alberi e giardini che rigogliono.
Pensavo che le cose da Hundertwasser accadessero solo a Vienna e dintorni, nella casa dell’ecoartista austriaco, o nei luoghi da lui progettati. Evidentemente mi sbagliavo. Nella sala da pranzo dell’ostello StayOkay di Maastricht c’è un albero. Anzi per meglio dire c’è il tronco di un albero. Questo tronco parte sotto il pavimento e sale in un buco nel soffitto. Non è niente di che a vedersi, gli hanno messo i tavoli intorno e potresti scambiarlo per una colonna. Se non fosse largo quasi un metro. Questo vuol dire che non l’hanno messo dopo, ma che gli hanno costruito la casa intorno. Questo vuol dire molto più sbattimento sia nella fase progettuale che in quella esecutiva. La differenza è che poi in sala da pranzo hai un albero che ti impala la casa e ti esce dal soffitto, una presenza reale. qualcosa che è più simile a te che a una colonna di cemento. Te lo vedi un muratore a fare la casa intorno a un albero?

venerdì 14 settembre 2007

SuperB

Roberto Calderoli, è sempre bene considerarlo, è quello che è apparso smargiassando in tv dentro una tshirt con le sue ("goliardiche") vignette antiislamiche provocando un bella pila di morti e il doppio dei feriti all'ambasciata italiana in Libano. ecco, mentre propone di organizzare un maiale-day nei luoghi dove sorgeranno nuove moschee, il suo compagno di bevute Mario Borghezio (sí, quello che spruzzava i treni con gli immigrati), europarlamentare (ci tengo a ricordarlo), pensa bene di partecipare, in occasione dell'11 settembre 2007, ad una manifestazione antiislamica organizzata dai partiti e dalle organizzazioni piú razziste e xenofobe d''europa.
breve storia della manifestazione: essa viene proposta dal gruppo secessionista belga e altri gruppi affini in giro per la mitteleuropa. il sindaco di Bruxelles la proibisce per il semplice motivo che non si fomenta l'odio nel luogo di pacifico incontro delle genti. essi ricorrono in appello sostenendo che ci saranno 20mila persone ma la sentenza viene confermata. essi decidono di farla comunque ma si ritrovano in 200. non stiamo certo parlando di una woodstock. ebbene con loro anche il foularino verde dell' ardito padano Borghezio, solidale alla causa del rispetto sì, ma solo tra di noi. di fronte a loro 100 sbirri, con tanto di tenuta antisommossa.
succede che vengono manganellati giusto il giusto e portati in questura, compreso il nostro europarlamentare, che si nasconde dietro l'immunitá diplomatica. il console e l'ambasciatore, imbarazzatissimi, vanno a raccattarlo in questura. piagnucola Borgezio, spuntando randagio dall'improbabile collarino bianco, che l'hanno “assalito e picchiato selvaggiamente" e trattato “peggio di un terrorista”. i diplomatici fanno quello che un buon padre in bmw farebbe col suo Lapo personale, che - accidenti! - ha fatto un'altra delle sue viziose marachelle. qualche pacca sulle spalle, dutré sorrisetti di circostanza, e i calci in culo a casa.
ciò che esportiamo in europa (oltre a Eros e alla Pausini) è un deputato che ti sputtana di fronte a tutto il continente pretendendo un rispetto che é il primo a negare. e d'alema cosa fa? chiede pubblicamente che il sindaco di bruxelles si scusi per come é stato trattato un eurodeputato.
lasciamo perdere.
anzi, ha ragione Borghezio.
non è che il foularino gli doni più grazia del collare da colpo della strega. anzi diciamo che la grazia non è tra le sue doti.
ma ha ragione lui. si, in fondo Borghezio è uno che ha capito tutto.
anzi se potessi rinascere mi farei spavaldo come il buon Mario,
l'ardito padano incolume alle percosse.

mercoledì 12 settembre 2007

ciò che accadde a una, cantando in direzione di Juergen Klinsmann, la pantegana bionda

la partita è germania-romania. l'ultimo incontro è stato giusto prima dei mondiali. la romania vince 5-1 e la germania si caga in mano, ma non è di questo che voglio parlare. allo stadio di colonia la gente è contenta. escono le squadre. i giocatori escono in passerella, pettinati e pettoruti. si mettono uno di fianco all'altro. inno rumeno poi a ruota quello crucco. prima carrellata sulla squadra, poi sui giocatori che cantano, poi sul pubblico. negli schermi di tutto l'orbe germanico sfilano cantando i mezzibusti di un biondo teutonico, poi un prode fanciullo germanico, poi una donna capello lungo e occhiali da nerd anni80 che canta convinta. probabilmente incarna qualche ideale di patriottismo tedesco, sano come l'altro colesterolo. la regia si ingolfa compiaciuta di fronte a cotanta forza delle cosiddette musiche de noartri. dopo una decina di secondi di lei che canta gaudente l'inno, in pochi attimi succedono tutte cose: la sciagurata si vede nel megamaxischermo dello stadio di colonia, allora si protende verso la se stessa nello schermo tentando di salutarsi. . ma l'immagine dello schermo decide di punirla per essersi distratta dal sacro momento della canzonetta nazionale e si volta da un'altra parte con fare indifferente, e pure borioso, salutando qualcun altro in un'altra direzione. come fa chi vuole evitarti^. la sgarbatezza della lei riflessa la confonde, comincia a guardarsi intorno isterica ma non trova la telecamera, vorrebbe salutarla e salutarsi; approfittando dell'occasione potrebbe salutare cordialmente tutto l'orbe terraqueo tedesco. guarda in tutte le direzioni, contorcendosi con gli occhi il cielo. gira su se stessa fino perdere l'equilibrio, cade addosso a un tipo grasso con un panino grasso, che cappotta malamente (alla giuliano ferrara) su due in sedia a rotelle, questi si arrotolano su se stessi, sbattono i mezzi metallizzati. uno rotola per le scale, sbattendo la testa negli scalini di arancio numerati, sfiora una vecchietta con la bandiera della gernania disaegnata sulla gobba e si sfascia sulle transenne esanime. l'altra quattroruote invece fa una spirale strana e rimbalza sopra un bambino. penso che se ti raggiunge una sedia a rotelle impazzita non sia l'ideale portare l'apparecchio per i denti. anche lui lo pensa ma smette perché il sangue gli fiotta in ogni dove nei pressi della bocca, sporcandogli la candida maglia nazionale. il bambino ha la faccia cosí sfigurata che neanche la madre saprà più riconoscerlo. ma quando questo succede la telecamera sta già inquadrando qualcun altro. in realtà la scena finisce quando la tipa tenta di salutarsi (piú o meno al ^) ma mi sono lasciato prendere la mano.

martedì 11 settembre 2007

the crazy check guy

c'è questo ragazzo germanico che studia a maastricht ma vive in belgio. beh, certo si in belgio, a 5 chilometri da maastricht o (come stimato da annuncio) 20 minuti in bici. comunque in casa con questo ragazzo germanico che chiameremo stefan, dicevo ci sta questo ragazzo. stefan lo chiama THE CRAZY CHECK GUY. stefan gli piace la chitarra, e sente questo che suona risuona e suona risuona melodie medievali con chitarra spagnola. allora bussa e quello si spaventa e chiede preoccupato is it too loud? e stefan che è uno tranqui funky fa no, man, i like your music!. e questo è un tipo della cechia ma non è cieco (questa è brutta brutta ma vabbè) e questo tipo della cechia è uno che suona la chitarra ha fatto miliaja di conservatori e master de chitarra e suona solo quella e fa melodie medievali. suona la chitarra tutto il giorno e su e giù de robe medievale. e questo non conosce niente di niente di niente della chitarra moderna. dico, non dico niente django reinhardt niente wes montgomery ma neanche niente jimi hendrix niente tom morello manco kurt cobeine. nien-te. solo medioevo

lunedì 10 settembre 2007

Il candiratto

sto in qui in camera nuova con marcio, il mio compare brasiliano del lussemburgo, che ci guardiamo www.candyrat. com dove ci sono tutti sti chitarristi della madonna e i videi di questi tipi su youtube. check it out

ps: questo panzone svaccato della porta accanto è
don ross - never got to pernambuco

domenica 9 settembre 2007

Max era Max

Sto seduto nell’ostello della gioventù StayOkay di Maastricht, l’unico ostello della gioventù della città, anche se a dispetto della sua ragione sociale qui di gioventù, quella con l’età ancora giovane, ce n’è ben poca. Nemmeno i prezzi sono propriamente da ostello della gioventù, anche la linea wireless è a pagamento. La tv è sintonizzata sul canale NOS, veramente. Guardo un programma dove scongelano il sangue, ispezionano un rene pronto per l’impianto per poi tagliuzzare la gente, mentre dagli speaker una radio esce red wine red wine make me feel so fine. Solo che non è ne Tom Waits né Joe Cocker, ma un rastafariano, di quelli good bibration! con i ritmi in levare, ma convertito ai piaceri del Mediterraneo. Subito dopo passano un pezzo di cui riconosco le note sghembe: si tratta nientemeno che di Max, di Paolo Conte. Credo di non averla mai sentita in radio in Italia, e mai la sentirò, a questo punto. Così mi sovviene di aver letto anni fa che Paolo Conte è molto famoso in Olanda (come pure in Francia, dove è più conosciuto che in Italia) e che la sua canzone più famosa qui è proprio questa, dedicata al suo chitarrista. Essa parla di questo personaggio più tranquillo che mai e la cui semplicità non semplificava le cose. Un pezzo che si lancia in un assolo di clarinetto bellissimo e sospeso, e poi archi nello stesso movimento trascinante una di quelle melodie che ti si piazzano in testa, e ti fa pure piacere (molti lo sanno: ascoltare Sole Cuore Amore di mattina è una cosa che ti può rovinare l’intera giornata). Max è così famosa in Olanda, leggevo, che tanta gente chiama i suoi figli Max in suo onore, un po’ come Benito durante il ventennio. O perlomeno così dicevano le cose scritte, che dicono sempre la verità. Ad ogni modo sentire Paolo Conte in luogo foresto mi fa sentire a casa, come se da un angolo saltasse fuori mia nonna con un piatto di polenta e spezzatino.

sabato 8 settembre 2007

Vive La Fete, i nuovi Ace of Base

Immaginate di prendere quattro musicisti non eccelsi e di fargli fare la musica più semplice possibile. Al batterista dite di fare tu-pa tu-pa, o al massimo tu-tu-pa tu-tu-pa; al tastierista mettete dei suoni digitali anni 80 ma non così freddi, ditegli di tenere il tempo sul levare e di non fare troppo il virtuoso; prendetene altri due, mettetegli una parrucca da Rod Stewart ma nera corvina: al chitarrista dite di non fare troppe cose, qualche nota ogni tanto, due barrè, e alla bisogna qualche urlo alla Rammstein sdolcinati; al bassista dite di non cambiare troppe note, solo un basso martellante (al massimo salire di un’ottava ma niente scale, per carità); piazzatelo sull’orlo del palco, gamba sinistra in avanti; ah, e ditegli di stare proteso verso il pubblico come un monumento ai caduti (proprio così ditegli, lui capirà). Ora avrete più o meno un gruppo punk. È più o meno quel che fece Malcolm McLaren coi Sex Pistols. Ma aggiungeteci il tocco finale: un bel pezzo di manza bionda in un vestitino nero, e che sa anche cantare, un po’. Non è Aretha Franklyn ma non importa. Ditele che balli e inciti e seduca il pub(bl)ico tutto tenendo il tempo, un po’ Joe Squillo e un po’ Juliette Lewis (ma molto più Joe Squillo). Ecco, questi sono i Vive La Fete: una via di mezzo tra gli Ace of Base e Marilyn Manson. Disco music da stadio. Se volete ballare è quello che cercate.

Vive La Fete
Festival Bruis - Maastricht
2 settembre 2007

venerdì 7 settembre 2007

La compagnia dei disperati















Està todo jodido
: così, molto prosaicamente, un’erasmus spagnola ha quantificato le mie speranze di trovare una camera qui a Maastricht. Già è difficile se sei studente, ma se sei studente c’è il Kamerburo, un servizio universitario dove si trovano le offerte, ormai ridotte al lumicino, ma soprattutto riservate. Per me che non son più studente la cosa si fa grave. In più tutti vogliono un regolare contratto da un anno, con perdita della caparra (=due mesi d'affitto) se te ne vai prima, mentre a me verrebbe comodo un subaffitto. Ma siamo in Olanda, compare, mica sul Mediterraneo. Le agenzie mostrano a peso d’oro buchi appena resi lucrativi. Tutti mi dicono It’s tough, e io grazie, lo so. Qui all’ostello siamo almeno una decina, di ragazzi che debbono rimanere qui solo qualche mese (dai 4 ai 6) che stanno cercando una stanza. C’è una ragazza spagnola, uno italiano, un brasiliano lussemburghese, due tedeschi, uno londinese, un russo, un ceco, e chissà quanti altri in giro, giocandosi quel che resta a prezzi esorbitanti. Siamo la compagnia dei disperati. Trovare qualcosa a meno di 400 euro è ormai una chimera, e tutto ciò che ho visto finora non è ammobiliato: ciò vuol dire che dovrei dormire in un cartone finché non trovo un letto.
Le mie uniche speranze al momento sono: un numero che m’ha dato un’artista dicendo che però il tipo è un infame e carissimo; una ragazza che se ne va in India e che mi lascerebbe la sua stanza da ottobre a dicembre, ma dovrei passare un mese in ostello; due 50enni che m’hanno fermato per strada pensando fossi Stefano, che mi faranno sapere qualcosa; una mail che ho ricevuto due settimane fa di un posto a 400 euro, di un tipo che se ne va qualche mese. Allora mi sembrava troppo, ma ora è la meglio speranza, a parte la tipa dell’India ovviamente. L’unica è attaccare avvisi e chiedere a chiunque, e quando dico chiunque dico la cameriera, il negoziante, lo studente e tutta la categoria dei passanti. Così è la vita. Chissà che il prossimo non sia quello giusto, o che qualcuno abbia pietà.

giovedì 6 settembre 2007

Homo Homini Ludus

Non vedo il tennis da quando in Italia gli hanno tolto il chiaro, cioè dal lontano 1993, quando ero un giovine devoto del gioco a rete. Il serve ‘n volley, battere e subito dritti in bocca agli attacchi dell’avversario mi sembrava più audace, ma anche più onesto che rimanere in trincea a distribuire mazzate dal fondo. Era la vampata e il rischio del fuoco contro il calmo tepore della brace dell’ultima linea di gioco. Per me erano i tempi di Becker, Rafter, Edberg e Chang, e spesso vincevano gli altri.
Su Eurosport2, mentre un enorme e talentuoso Safin (testa di serie numero 25) perde stancamente con un triplo 6-3 da un giovane e sconosciuto Wawrinka, passano gli US Open. I due giocatori seguenti sono particolari: seppur privati della loro nazionalità dalla mancanza di bandierina vicino al nome, i visi contratti ne tradiscono le radici. Djokovic sembra Adrien Brody, quello de Il Pianista. Pure di Summer of Sam, di Spike Lee, dove faceva il punk, quelli newyorkesi d’altri tempi. Stepanov invece sembra il cattivo di Robocop, l’arrivista impolverato amicone degli assassini dell’uomo di ferro, terminato mentre supplicava l’immeritato perdono (cercando il pistolone con l'altra mano) con abbondanti quanto finti lacrimoni.
Istintivamente tengo per Adrien Brody, perché il cattivo di Robocop mi è sempre stato sul gozzo. Anche se talvolta risalgono, il gioco rimane saldamente a fondocampo. Il mio favorito sta sempre all’inseguimento ma si vede che è più bravo, solo un po’ impreciso. È pur sempre testa di serie numero 3, dice la sovrimpressione. Prima o poi avrà la meglio sulla profonda stempiatura sudata dell’altro, che riesce a togliere l’attenzione dalle profonde occhiaie rosse. Dopo un 7-6 ciascuno, il cattivo ripassa in vantaggio di nuovo e nel quarto set conduce 5-4. Sembra fatta ma il punk slavo passa in vantaggio 5-6. A questo punto però il cattivo comincia a toccarsi preoccupatamene la coscia destra, siede nel suo divanetto triste e sembra non farcela, scende l’allenatore, e pure il medico. Chiacchierano e lui continua a toccarsi con la faccia di quello che è venuta la mamma a raccattarlo quando si era sul finire della partita. Sarebbe brutto vincere così per Adrien. Vincere contro uno che si ritira mentre si è in svantaggio non è molto onorevole, e dopo tutto quel correre e bacchettare. Il danno a uno e la beffa all’altro, o meglio ad entrambi. Passa la pubblicità: c’è il buon Pelè portavoce dell'Unicef che invita tutti ad Aspire, un’accademia sportiva di eccellenza con base in Qatar, poi una serie di sfighe uno dopo l’altra, ovviamente di un’assicurazione, e la Lexus Hybrid Drive, con pianoforte alla Supercar di sottofondo, motore ibrido e più basse emissioni della categoria (quella delle berline di lusso, peraltro. Li vedi, quando il Giangi dice a Lapo, sai il papi m‘ha fatto la Hybrid perché sa che ho una coscienza ambientalista, in fondo). Torna la diretta e il cattivo è in campo, redivivo ma stanco. È dura perché l’altro gioca per il set, ma lui batte e deve dare il tutto per tutto. Le battute non sono micidiali ma la forza di chi deve osare lo spinge ad avventurarsi regolarmente in arditi serve n’volley, con alterna efficacia. La vicinanza alla rete accelera il gioco e scalda gli animi. Saranno il suo stoicismo, le sue cattive condizioni e la mia predilezione per gli eroi negativi alla Mickey Rourke, ma mi converto seduta a stante alla sua causa. Abiuro Adrien Brody che ora non è più il simpatico punk di Summer of Sam ma lo sfigato de Il Pianista. Ciononostante quest’ultimo pareggia i conti. Si va all’ultimo set con il caldo delle 14 pomeridiane a New York in agosto. Tutto è sudore e acido lattico e i due si lanciano nelle danze del gioco, con salite e discese, pallonetti e volee, drittoni e palle smorzate. Giocano finalmente al gioco, con la certezza che in ballo ci sia qualcosa di più che il passaggio del turno ormai. A questo punto non tifo più per nessuno, tifo solo per il gioco. Mi è indifferente chi vinca purchè si sciolga questo groppo, si sappia come va a finire. Si va al tie-break finale: un ennesimo 6-6 dopo quattro ore e mezza di battaglia simulata. Per qualcuno mancano sette punti alla fine, per l’altro meno. Se la giocano fino all’ultimo, facendo vibrare un pubblico che fatica a zittirsi dopo ogni punto: tanta tensione vissuta e condivisa va scaricata con le parole, che non ci si può muovere.
Vince Djokovic, dopo un match point mancato sul 6-2. Tutto si scioglie intorno al campo, il pubblico esplode in una liberatoria standing ovation e li porterebbe in tripudio, se solo potesse. Tutti hanno hanno assistito a qualcosa di epico, quello che le boriose partite di calcio non sono più da tempo. Mentre Djokovic esulta, finalmente senza tensione, Stepanov scavalca la rete e lo raggiunge. Si abbracciano forte, come due scalatori che hanno scalato insieme le rupi e hanno finalmente conquistato la cima. Si sbilanciano quasi, e si scambiano il sudore di quattro ore e quarantaquattro minuti in una stretta virile. che provoca quella commozione umana che dà lo sport, a volte. L’unico motivo per seguire questa decadente caricatura del gioco, lo sport appunto, sono questi momenti finali di reala fratellanza tra cuccioli d’uomo sotto spoglie adulte. Staccandosi come amanti dopo un amplesso, con le facce e sconvolte e gli arti indolenziti, si guardano negli occhi, riconoscendosi. Poi il vinto si allontana, il vincitore esulta, ma al contempo indica l’avversario con la faccia di uno che ha avuto solo un colpo fortunato in più, che pare quasi brutto che qualcuno debba proprio vincere. Pare proprio brutto, a volte.

(a seguire un Robredo, un Matt Dillon con un accenno di baffi, tra i tempi de I Goonies e quelli di Drugstore Cowboys contro Fish, un Chris Penn un po’ più secco dei tempi non ancora ciccionissimi de Le Iene. Matt Dillon ha vinto in tre set e ha stretto cordialmente e senza esagerare la mano al suo avversario. Poi via, sotto la doccia, perché aveva sudato).

mercoledì 5 settembre 2007

camaròn (la pelicula)

che succede: chiedete ad uno spagnolo chi è el camaròn? vedrete che è come chiedere a un napoletano chi è maradona. el camaròn de la isla, il più grande (e più amato) cantante flamenco di tutti i tempi, è colui che ha portato el cante de los gitanos a vette espressive mai udite prima, con guizzi e gorgheggi degni di un muezzin che invita dal suo minareto ad esperienze mistiche. accompagnato da musicisti for-mi-da-bi-li quali paco de lucia e tomatito, divenne prima dei trent'anni il maestro del canto (come poi sono stati demetrio stratos e nusrat fateh ali khan, anch'essi non propriamente morti nel sonno), cosa che l'avrebbe avviato ad una carriera sedutio sul comodo sofà della revival di se stesso. invece, forte della sua posizione, el camaròn fu colui che rivoluzionò la musica flamenca, inserendo elementi e strumenti tipici del jazz e del rock, scelta che gli provoco non poca ostilità e fondate accuse di tradimento della tradizione (un po' come bere grappa e cocacola in trentino). il disco della rottura (uscito nel '79 e condito anche da testi tratti da poemi di garcia lorca), che porta il nome de "la leyenda del tiempo", è un' obra maestra che strappa di netto le ancore della tradizione e si avventura senza remore nelle indie della musica. il film racconta l'infanzia, il periodo con paco (e il suo padre padrone), le nozze con la chispa, sua compagna storica, la leyenda del tiempo, la tossicodipendenza e l'ultimo periodo, quando, a 40 anni, si scoprì in un cancro a i polmoni.

perchè vederlo: perchè, seppur compressa per motivi cinematografici, è sempre interessante scoprire le vite dei miti, e perchè per molti potrebbe essere una buona introduzione al flamenco, un tipo di musica poco ascoltato in italia, forse l'unica vera musica autoctona di questa nostra europa colonizzata dal piano marshall.
perché non vederlo: forse perchè è la solita storia del cantante talentuoso e tormentato ma che non sa badare a se stesso, un bambino intrappolato nel corpo di un mito, indolente e vizioso.
una battuta: paco de lucia "tu puedes ser el mejor cantante que havia nunca, tu tienes un dono de dios", camaròn "y tu tambien paco" paco de lucia "pues vamos a disfrutar no?"


lunedì 3 settembre 2007

"yippee-ki-yay, motherfucker"

provate a chiedere a qualunque maschio della mia generazione chi è JOHN McLANE. a uno qualsiasi. egli vi risponderà che john mclane è il più fico degli eroi del cinema d'azione di tutti i tempi. e non perchè i suddetti film sono un virile tripudio di pallottole e di botte vecchia maniera (alla bud spencer e terence hill per capirci, ma senza la presenza di un bud nè l'agilità di un terence). non perchè egli sopravvive alle situazioni più assurde tipo esplosioni, inondazioni nelle fogne, rimanere appesi e cadere dall'altissimo ecc. finendo sempre pieno di sangue e di escoriazioni che gli fanno un baffo. neanche perchè il nostro finisce sempre per sbaragliare tutti i terroristi uno alla volta fino all'ultima scena in cui sembra debba morire e invece alla fine no. no, non solo per questo. john mclane fa tutte queste cose senza battere ciglio e sfoderando una serie di battute da banfone che farebbero impallidire il più banfone dei taglialegna della più remota (quindi più banfona) valle della più remota (quindi più banfona) montagna del mondo. john mclane è il prototipo della totale mancanza di umiltà. e pure della più totale mancanza di razionalità. john mclane è l'ercole dei nostri tempi, quello che sfida gli dei e poi gli fa un culo come una capanna. il padre del sergi, il mio amico catalano diceva sempre "hay cosas que un hombre tiene que hacer, y las hace tranquilamente". ecco john mclane è uno che quelle cose che un uomo deve fare, semplicemente le fa, rischiando la vita (e raschiandosi la pellaccia) per l'umanità (ehm, forse non per tutta l'umanità). e non c'è schwarzenegger, nè van damme nè chuck norris nè bud spencer e terence hill nè rambo nè uma thurman nè 300 che tengano. questa è gente preparata, dei picchiatori professionali. john mclane farebbe il culo a tutti, e poi ti offrirebbe una birra al bar, smargiassando allegramente, e alla fine ti raccoglierebbe ubriaco, ti porterebbe a casa e ti rimboccherebbe pure le coperte, come un ned flanders qualunque. poi magari si addormenterebbe per terra, smerdando il tappeto di sangue e bava, ma hey, sono gli umori di john mclane.

sabato 1 settembre 2007

kebab vs. kebab

La carne che riempie i kebab viene da un tronco di cono rovesciato impalato su un asse verticale e rotante su se stesso. Come la terra esso gira su se stesso per essere riscaldato omogeneamente dalla fonte di calore che gli sta a lato. Questo tronco di cono è composto da una pila di sottili strati di carne, unti e sfrigolanti. Mi sono sempre figurato i preparatori musulmani che dispongono una sopra l’altra queste irregolari solette d’agnello fino a conseguire il risultato desiderato, precisi come amanuensi. Da questi coni il taglio verticale con il rasoio da kebab produce dei coriandoli d’agnello che si sciolgono in bocca e che rendono il kebab, con una giusta quantità di verdure e di salse (ma senza cipolla) la mia schifezza salata preferita.
Ora la proliferazione del kebab ha prodotto questa nuova pasta di kebab, omogenea e compatta, fatta probabilmente di macinato d’agnello, che ha tutta l’aria di essere superindustriale. Le rasoiate producono scaglie di kebab, a volte anche grandi come una moneta. A livello di gusto il multistrato di kebab batte abbondantemente il truciolato di kebab. Immaginate l’altra sera come mi sono sentito quando, al dòner kebab alì babà, sulle rive della Mosa, affamato come un normale galeazzi, mi hanno presentato un kebab composto per l’ottantacinque per cento di carne del tipo truciolato, insapore come suole, con una piccola fonda di cetriolo e salse. È stata una tristezza, ecco.

viaggio senza viaggio

qualche estate fa ormai, mi capita di incontrare un’amica di scuola. mi confida con eccitazione di aver sviluppato un certo interesse per la montagna. a me non sembra il tipo da scarponi e sudore ma rimango piacevolmente colpito dalla notizia. mi piace andar per boschi, respirare l’aria buona, stare al contatto con la natura, dice, volevo anche andare sul viòz. il viòz è una cima ambita e godibile, ma dura. niente di massacrante, ma non propriamente andar per boschi. già me la vedo, intrepida a sfidare i camosci con lo scarpone firmato e lo zaino scamosciato. così ho chiesto quanto costa. quanto costa cosa, faccio io. salire con l’elicottero, aggiunge. eccolo, il brusco ritorno alla realtà, intuito ma non per questo atteso. ma costa troppo. salire una cima in elicottero, o meglio farsi sacco inerte di una macchina per riuscirci è una delle cose più tristi cui si possa pensare. è come nascere imparato. il bello di un’ascesa è la salita, quella perversa tensione che ti tiene lo sguardo verso l’alto, l’acquolina della cima. quando arrivi in cima non puoi far nient’altro che scendere, insegna mauro corona.

allo stesso modo mi sembrano oggi i viaggi in aereo. esistono due punti, quello di partenza e quello di arrivo, e in mezzo il nulla. a meno che si consideri “viaggio” il sorvolare paesaggi della grandezza percepita di un presepe, quando non di un modellino. tutto quello che c’è tra i due punti, semplicemente, non esiste. come possiamo ancora chiamare viaggio qualcosa che non ne ha più le caratteristiche, monco della via, senza il gusto della vita sulla via. in verità il viaggio moderno è più simile al teletrasporto di star trek che al viaggio propriamente detto. e questo lo dico senza vena alcuna di nostalgia (o di nostalgismo). solo chiamiamo le cose col loro nome. chiamiamola villeggiatura, non viaggio. per jack kerouac, il viaggiatore moderno per eccellenza, l’andare è sempre stato il massimo della gioia, l’arrivare il massimo della noia. e questo lo diceva uno che a a quarant’ anni viveva ancora con la mamma.