martedì 25 settembre 2007

Fashion victim

Maastricht, mi spiega Cristiana, che lavora qui da qualche anno, è la città dello shopping. È giovedì pomeriggio e il centro sembra un formicaio di bipedi che trasportano borse di tutte le fogge e di tutte le firme. Ci sono soprattutto olandesi, belgi, tedeschi, ma anche qualche spagnolo e francese. Questi camminatori indefessi si possono suddividere, a prima vista, in due categorie ben distinte: quelli con le borse e quelli col portafogli ancora pieno. Percorrono in ogni direzione questo centro medievale, con le stradine strette e pedonali e le case di mattoni rossi tutte sviluppate in altezza, che ospita fini pasticcerie e gioiellerie gioiosamente protese verso l’attenzione dei passanti. Sopra le vetrine opulente sfilano immobili tutte le firme della moda conosciute e sconosciute. Il gusto della moda olandese, a vederlo da qua, è simile a quello di altri posti, forse meno kitch di quello tedesco, meno elegante (ma anche meno truzzo) di quello italiano e meno stravagante di quello francese. La gente è molto ben vestita, paiono tutti in uscita ufficiale.
Cristiana dice che hanno cavalcato bene l’onda del trattato del 1992, quello dell’Euro, quello che ha decretato il passaggio dall’opportunista Comunità Economica Europea alla più ambiziosa Unione Europea. L’hanno cavalcata dicevo così bene, l’onda, che questo piacevole centro caratteristico e travestito da girone dantesco potrebbe mettersi in lizza per il salotto buono della Mitteleuropea 2007. Certamente il trattato non è stato firmato qui per caso. Siamo nel centro ideale dell’Europa, in fondo all’Olanda e a uno sputo dalla Germania, dal Belgio e dalla Francia. Ma nel centro ideale dell’Europa è la perfetta rappresentazione di quello che l’Europa vorrebbe essere: ordinata, pulita, multiculturale, con retrogusto di tradizione ma ambizioni metropolitane e un’economia che viaggia a vele spiegate. Forse per questo il centro del centro ideale dell’Europa è un crogiuolo pulsante di multinazionali al dettaglio. Gli astanti specchiano nei manichini e si riconoscono un po’.
Il tutto mi pare un po’ stonato, o forse sono io ad esserlo. Mentre fuggo impaurito dalla ressa elegantemente abbigliata, una versione di Rosamunda esce olandese da un pub che sparge sulla via il Raul Casadei nostrano, con tanto coro di ubriachi che arrancano dietro le parole come gregari in fuga all’ultimo allungo.
Rosamunda sarà l’originale o solo una versione di Rosamunde? E se entrambe fossero solo copie di un’altra canzone ancora, una versione primigenia, una UrRosamunda? In fondo i popoli si scambiano le canzoni da sempre. Pensa alla versione da messa di Blowing in the wind di Bob Dylan (dove la risposta, amico mio, sta sospesa nel vento diventa risposta non c’è, o forse chi lo sa, caduta nel vesto sarà: la levità della soluzione del folletto folk, e pure il suo messaggio positivo vengono ridotti a una perentoria e italica assenza di risposte, chè manca solo un ch’aggi’a fa, cumpà?).
Mentre cogito oziosamente sui diritti d’autore delle canzoni popolari vengo risucchiato all’interno di uno di questi negozi di vestiti. Gli uomini accompagnano le loro compagne e amiche in questi proteiformi templi dell’abbigliamento hanno la stessa aria smarrita degli accompagnatori italiani, l’espressione di quelli che stanno guardando un film che non capiscono, che si guardano attorno cercando uno schermo che dia una partita, o perlomeno delle foto di fresche pupattole in lingerie. Lì scopro finalmente che tutto il mondo è paese, che in fondo le esperienze si assomigliano in tutti i luoghi, e questo mi conforta

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