Non vedo il tennis da quando in Italia gli hanno tolto il chiaro, cioè dal lontano 1993, quando ero un giovine devoto del gioco a rete. Il serve ‘n volley, battere e subito dritti in bocca agli attacchi dell’avversario mi sembrava più audace, ma anche più onesto che rimanere in trincea a distribuire mazzate dal fondo. Era la vampata e il rischio del fuoco contro il calmo tepore della brace dell’ultima linea di gioco. Per me erano i tempi di Becker, Rafter, Edberg e Chang, e spesso vincevano gli altri.
Su Eurosport2, mentre un enorme e talentuoso Safin (testa di serie numero 25) perde stancamente con un triplo 6-3 da un giovane e sconosciuto Wawrinka, passano gli US Open. I due giocatori seguenti sono particolari: seppur privati della loro nazionalità dalla mancanza di bandierina vicino al nome, i visi contratti ne tradiscono le radici. Djokovic sembra Adrien Brody, quello de Il Pianista. Pure di Summer of Sam, di Spike Lee, dove faceva il punk, quelli newyorkesi d’altri tempi. Stepanov invece sembra il cattivo di Robocop, l’arrivista impolverato amicone degli assassini dell’uomo di ferro, terminato mentre supplicava l’immeritato perdono (cercando il pistolone con l'altra mano) con abbondanti quanto finti lacrimoni.
Istintivamente tengo per Adrien Brody, perché il cattivo di Robocop mi è sempre stato sul gozzo. Anche se talvolta risalgono, il gioco rimane saldamente a fondocampo. Il mio favorito sta sempre all’inseguimento ma si vede che è più bravo, solo un po’ impreciso. È pur sempre testa di serie numero 3, dice la sovrimpressione. Prima o poi avrà la meglio sulla profonda stempiatura sudata dell’altro, che riesce a togliere l’attenzione dalle profonde occhiaie rosse. Dopo un 7-6 ciascuno, il cattivo ripassa in vantaggio di nuovo e nel quarto set conduce 5-4. Sembra fatta ma il punk slavo passa in vantaggio 5-
Vince Djokovic, dopo un match point mancato sul 6-2. Tutto si scioglie intorno al campo, il pubblico esplode in una liberatoria standing ovation e li porterebbe in tripudio, se solo potesse. Tutti hanno hanno assistito a qualcosa di epico, quello che le boriose partite di calcio non sono più da tempo. Mentre Djokovic esulta, finalmente senza tensione, Stepanov scavalca la rete e lo raggiunge. Si abbracciano forte, come due scalatori che hanno scalato insieme le rupi e hanno finalmente conquistato la cima. Si sbilanciano quasi, e si scambiano il sudore di quattro ore e quarantaquattro minuti in una stretta virile. che provoca quella commozione umana che dà lo sport, a volte. L’unico motivo per seguire questa decadente caricatura del gioco, lo sport appunto, sono questi momenti finali di reala fratellanza tra cuccioli d’uomo sotto spoglie adulte. Staccandosi come amanti dopo un amplesso, con le facce e sconvolte e gli arti indolenziti, si guardano negli occhi, riconoscendosi. Poi il vinto si allontana, il vincitore esulta, ma al contempo indica l’avversario con la faccia di uno che ha avuto solo un colpo fortunato in più, che pare quasi brutto che qualcuno debba proprio vincere. Pare proprio brutto, a volte.
(a seguire un Robredo, un Matt Dillon con un accenno di baffi, tra i tempi de I Goonies e quelli di Drugstore Cowboys contro Fish, un Chris Penn un po’ più secco dei tempi non ancora ciccionissimi de Le Iene. Matt Dillon ha vinto in tre set e ha stretto cordialmente e senza esagerare la mano al suo avversario. Poi via, sotto la doccia, perché aveva sudato).
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