giovedì 6 settembre 2007

Homo Homini Ludus

Non vedo il tennis da quando in Italia gli hanno tolto il chiaro, cioè dal lontano 1993, quando ero un giovine devoto del gioco a rete. Il serve ‘n volley, battere e subito dritti in bocca agli attacchi dell’avversario mi sembrava più audace, ma anche più onesto che rimanere in trincea a distribuire mazzate dal fondo. Era la vampata e il rischio del fuoco contro il calmo tepore della brace dell’ultima linea di gioco. Per me erano i tempi di Becker, Rafter, Edberg e Chang, e spesso vincevano gli altri.
Su Eurosport2, mentre un enorme e talentuoso Safin (testa di serie numero 25) perde stancamente con un triplo 6-3 da un giovane e sconosciuto Wawrinka, passano gli US Open. I due giocatori seguenti sono particolari: seppur privati della loro nazionalità dalla mancanza di bandierina vicino al nome, i visi contratti ne tradiscono le radici. Djokovic sembra Adrien Brody, quello de Il Pianista. Pure di Summer of Sam, di Spike Lee, dove faceva il punk, quelli newyorkesi d’altri tempi. Stepanov invece sembra il cattivo di Robocop, l’arrivista impolverato amicone degli assassini dell’uomo di ferro, terminato mentre supplicava l’immeritato perdono (cercando il pistolone con l'altra mano) con abbondanti quanto finti lacrimoni.
Istintivamente tengo per Adrien Brody, perché il cattivo di Robocop mi è sempre stato sul gozzo. Anche se talvolta risalgono, il gioco rimane saldamente a fondocampo. Il mio favorito sta sempre all’inseguimento ma si vede che è più bravo, solo un po’ impreciso. È pur sempre testa di serie numero 3, dice la sovrimpressione. Prima o poi avrà la meglio sulla profonda stempiatura sudata dell’altro, che riesce a togliere l’attenzione dalle profonde occhiaie rosse. Dopo un 7-6 ciascuno, il cattivo ripassa in vantaggio di nuovo e nel quarto set conduce 5-4. Sembra fatta ma il punk slavo passa in vantaggio 5-6. A questo punto però il cattivo comincia a toccarsi preoccupatamene la coscia destra, siede nel suo divanetto triste e sembra non farcela, scende l’allenatore, e pure il medico. Chiacchierano e lui continua a toccarsi con la faccia di quello che è venuta la mamma a raccattarlo quando si era sul finire della partita. Sarebbe brutto vincere così per Adrien. Vincere contro uno che si ritira mentre si è in svantaggio non è molto onorevole, e dopo tutto quel correre e bacchettare. Il danno a uno e la beffa all’altro, o meglio ad entrambi. Passa la pubblicità: c’è il buon Pelè portavoce dell'Unicef che invita tutti ad Aspire, un’accademia sportiva di eccellenza con base in Qatar, poi una serie di sfighe uno dopo l’altra, ovviamente di un’assicurazione, e la Lexus Hybrid Drive, con pianoforte alla Supercar di sottofondo, motore ibrido e più basse emissioni della categoria (quella delle berline di lusso, peraltro. Li vedi, quando il Giangi dice a Lapo, sai il papi m‘ha fatto la Hybrid perché sa che ho una coscienza ambientalista, in fondo). Torna la diretta e il cattivo è in campo, redivivo ma stanco. È dura perché l’altro gioca per il set, ma lui batte e deve dare il tutto per tutto. Le battute non sono micidiali ma la forza di chi deve osare lo spinge ad avventurarsi regolarmente in arditi serve n’volley, con alterna efficacia. La vicinanza alla rete accelera il gioco e scalda gli animi. Saranno il suo stoicismo, le sue cattive condizioni e la mia predilezione per gli eroi negativi alla Mickey Rourke, ma mi converto seduta a stante alla sua causa. Abiuro Adrien Brody che ora non è più il simpatico punk di Summer of Sam ma lo sfigato de Il Pianista. Ciononostante quest’ultimo pareggia i conti. Si va all’ultimo set con il caldo delle 14 pomeridiane a New York in agosto. Tutto è sudore e acido lattico e i due si lanciano nelle danze del gioco, con salite e discese, pallonetti e volee, drittoni e palle smorzate. Giocano finalmente al gioco, con la certezza che in ballo ci sia qualcosa di più che il passaggio del turno ormai. A questo punto non tifo più per nessuno, tifo solo per il gioco. Mi è indifferente chi vinca purchè si sciolga questo groppo, si sappia come va a finire. Si va al tie-break finale: un ennesimo 6-6 dopo quattro ore e mezza di battaglia simulata. Per qualcuno mancano sette punti alla fine, per l’altro meno. Se la giocano fino all’ultimo, facendo vibrare un pubblico che fatica a zittirsi dopo ogni punto: tanta tensione vissuta e condivisa va scaricata con le parole, che non ci si può muovere.
Vince Djokovic, dopo un match point mancato sul 6-2. Tutto si scioglie intorno al campo, il pubblico esplode in una liberatoria standing ovation e li porterebbe in tripudio, se solo potesse. Tutti hanno hanno assistito a qualcosa di epico, quello che le boriose partite di calcio non sono più da tempo. Mentre Djokovic esulta, finalmente senza tensione, Stepanov scavalca la rete e lo raggiunge. Si abbracciano forte, come due scalatori che hanno scalato insieme le rupi e hanno finalmente conquistato la cima. Si sbilanciano quasi, e si scambiano il sudore di quattro ore e quarantaquattro minuti in una stretta virile. che provoca quella commozione umana che dà lo sport, a volte. L’unico motivo per seguire questa decadente caricatura del gioco, lo sport appunto, sono questi momenti finali di reala fratellanza tra cuccioli d’uomo sotto spoglie adulte. Staccandosi come amanti dopo un amplesso, con le facce e sconvolte e gli arti indolenziti, si guardano negli occhi, riconoscendosi. Poi il vinto si allontana, il vincitore esulta, ma al contempo indica l’avversario con la faccia di uno che ha avuto solo un colpo fortunato in più, che pare quasi brutto che qualcuno debba proprio vincere. Pare proprio brutto, a volte.

(a seguire un Robredo, un Matt Dillon con un accenno di baffi, tra i tempi de I Goonies e quelli di Drugstore Cowboys contro Fish, un Chris Penn un po’ più secco dei tempi non ancora ciccionissimi de Le Iene. Matt Dillon ha vinto in tre set e ha stretto cordialmente e senza esagerare la mano al suo avversario. Poi via, sotto la doccia, perché aveva sudato).

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